Addomesticare le bestie

A Fermi! Tanto
non farete mai centro.
La Bestia che cercate voi,
voi ci siete dentro.

Giorgio Caproni

 

Addomesticare le bestie è il titolo di un pomeriggio in cui pioveva e l’immagine del mio balcone si sgretolava dietro i vetri della finestra. Io avevo ventinove anni e la purezza degli animali, che non hanno coscienza ma solo sangue.

Addomesticare le bestie è il titolo del mio primo libro, una raccolta di quarantuno poesie che prima ho scritto e poi ho voluto dimenticare. Finché non hanno smesso di fare male.

Addomesticare le bestie, da quanto ho capito, non è possibile. Sicuramente non è possibile addomesticarle tutte. Alcune si possono domare, altre riposano in attesa, con altre si può imparare a convivere, ma altre vanno soltanto liberate.

Però sono ancora convinta che avesse ragione Caproni.

libro copertina

Tre luglio

Il tre luglio mi manchi, non so dove cercarti. Odio la mail di notifica del sito sull’albero genealogico che mi ricorda il tuo compleanno. Mi ero iscritta anni fa, ero lontana, avevo una vita ma me ne mancava un’altra, come sempre. Tre luglio ventisei, ho messo la tua data di nascita, la più cara. Quella di morte non l’ho messa mai. Sono passati due anni, la ferita non la guardo, se la guardo perde ancora sangue.

L’anno che sei morto mi sono sposata. Te l’avevo detto a dicembre, durante le vacanze di Natale. Nonno, io e Giovanni abbiamo deciso di sposarci. Tu hai annuito e hai detto Mi sembra una cosa buona. Mi tenevi la mano tra le tue mani, come facevi sempre, me l’hai stretta un poco. Io mi sono messa a ridere, ti ho accarezzato un sopracciglio, folto, grigio, disordinato. Le ragazze volevano organizzare l’addio al nubilato il tre di luglio, era domenica. Non posso, devo andare al cimitero. L’hanno spostato al giorno prima, siamo andate a Taormina, mi hanno messo una fascia con sopra scritto sposa, un cerchietto vagamente osceno, faceva caldo, ero felice.

L’anno scorso lavoravo. Un giorno inutile qualsiasi. Non sono potuta venire a trovarti. Quando vengo da te al cimitero mi riprometto sempre di raccogliere i soldi per farti una lapide come si deve, di cercare un’altra foto in cui non sembri arrabbiato; pulisco con cura il pavimento dalle erbacce, i fiori secchi e i vermi. Lo lavo e mi viene sempre in mente un verso di Brecht, anche la terra nuda tu rinfrescala, e le volte in cui la sera passavo la scopa e lo straccio attorno al tuo letto. Poi faccio un pensiero che vorrei evitare: penso al tuo corpo e mi chiedo a quale stadio di decomposizione sia giunto, cosa sia rimasto di te a questo punto, quante ossa, quanti denti, quanti capelli. È una visione orribile ma mi conforta, mi dice che di te esiste ancora qualcosa.

Quella foto l’abbiamo scattata un pomeriggio in terrazza. Ti serviva una fototessera nuova per la carta d’identità. Era estate, avevi una camicia chiara e i pantaloni corti. Per fare la foto hai indossato anche la giacca e la cravatta. Ancora camminavi, non tanto, non bene, appoggiato a qualcuno o a qualcosa, ma camminavi. Ti sei messo uno sguardo grave, serio, da persona seria quale eri. Ma il risultato è che sembri troppo accigliato, forse era il sole, troppo arrabbiato, non sembri tu. Tu eri buono, avevi un cuore enorme che ha tenuto fino all’ultimo mentre gli altri organi cedevano, collassavano. Non eri severo, non era necessario, ti bastavano gli occhi, la fermezza della voce. Con me non hai mai gridato, non ti sei mai arrabbiato. L’unica persona al mondo. Anche per questo ti sono grata.

Nemmeno quest’anno sono venuta a trovarti. Sono a Catania, Giovanni lavora. Ho una bambina, si chiama Giuditta. Quando sono da mia madre – tua figlia – passo nella sua camera da letto e mi metto davanti allo specchio della cassettiera, faccio le smorfie, faccio ridere Giuditta, ma in realtà guardo la foto che c’è sulla cassettiera, una foto in cui sorridi debolmente e hai gli occhi buoni, la pelle del volto più lenta, più sottile. Ti guardo e penso che Giuditta ti piacerebbe, impazziresti per lei. Penso che in lei rivedresti me – non so perché, ma mentre tutti vedono Giovanni io so che tu vedresti me.

 

La più antica difficile del mondo

Dev’essere stato quando la nostra storia
– quella storia che io ho sempre detto nostra
di colpo si è conclusa. E fu la prima
causa di desertificazione naturale.

Ciascuno si riprese il proprio corpo,
riconsegnò le chiavi al proprietario
lasciando sul comodino il Pomeriggio
di uno scrittore di Handke: mai letto

non come quel poeta irriverente,
serbo: salti circensi per scordare il nome
di lui, dell’esistenza stessa dell’amore
– bestia d’una cialtrona! volevo dire autore

(non te: tu, come vedi,
ancora mi rallegri il cuore).

Sola non sei

Sola non sei
umano è il respiro che ti sorveglia
umana l’impronta
lasciata al tuo fianco

di donna
il rumore affaccendato
che mite e solerte
prepara la casa al tuo risveglio.

Fa caldo e sto leggendo

Fa caldo e sto leggendo. È un libro coi risvolti, alta grammatura, carta opaca. Lei dorme da quasi mezz’ora. Io sono seduta al tavolo della cucina, con le maniche lunghe e sotto niente. Questo tempo è pieno, è vuoto. Nel cielo un velo di scirocco agisce sulle strade come un sonnifero dolce e feroce.

Fa caldo e sto leggendo. Tengo una matita in mano, gialla e nera, con la punta morbida, rotonda. Qualche volta sottolineo una frase o faccio un piccolo segno verticale accanto alle parole. Quasi sempre è la frase di chiusura a ogni paragrafo. Chi ha scritto ha voluto curare questo soprattutto, il congedo.

Fa caldo e sto leggendo. Tengo una matita in mano, gialla e nera. Ogni tanto la poso in mezzo al libro, lo chiudo. Le pagine si gonfiano attorno al corpo della matita, formando un piccolo occhio dalla pupilla sporgente e aguzza. Occhio dentro corpo. Corpo dentro corpo. Punta alla tastiera, dritta, sicura come un generale di guerra.

Fa caldo e sto leggendo. Ogni tanto poso la matita in mezzo al libro, lo chiudo. Passo a scrivere una frase alla tastiera, brilla sullo schermo, lampeggia rincorrendo quella stanghetta verticale che ti dice dove sei. Quarta riga, quinta riga, fine frase. Io non corro. Io non inseguo. Io aspetto e penso e quando smetto di pensare affondo.

Fa caldo e sto leggendo. Quando scrivo mi trovo in un luogo profondo e pieno d’acqua. L’acqua risale lungo le caviglie, le gambe, le ginocchia, le cosce, la cicatrice sopra il pube, l’ombelico, le costole, i seni, il collo, il mento, la bocca, il naso e quando raggiunge gli occhi io la guardo, la linea orizzontale e liquida che mangia il mio corpo verticale. La guardo, e non affondo.

Fa caldo e sto leggendo. Quando scrivo sento ancora più caldo. Fa così caldo che mi esplode il cuore nel petto e il sangue arriva fino alla punta delle dita, largo, vastissimo. E quello che scrivo diventa vero, diventa la mia pelle, diventa la pelle che tutti possono toccare, diventa il corpo che mando in giro al mio posto, diventa il mio fantasma, diventa il mio simulacro, diventa il mio equivoco, diventa il mio sepolcro.

Fa caldo e sto leggendo. Ogni tanto poso la matita in mezzo al libro e scrivo. Tiro su le maniche della maglietta. Vorrei aprire tutte le finestre, ma temo che il rumore della strada possa svegliarla. Mi chiedo cosa resterà di tutto questo calore. Cosa ho passato a lei di tutto questo calore.