Avevi provato in tutti i modi a proteggermi il cuore. Ma noi ostinati e giovani di ferite abbiamo continuato imperterriti a ingannarci come in una perenne estate di san Martino. Eppure era dicembre e avrei dovuto saperlo che la semina in inverno è ingiusta e malata. Mi avevi messo in guardia dall’incostanza e dall’egoismo, dalle parole fiorite per appassire il giorno dopo, come frutti marci che si spaccano prematuramente. Ma io ho le vene di campagna, sottili, ma resistenti al freddo, pazienti e attente. Io credevo che sarei riuscita a raddrizzare le piante, a farne serpenti vigili, bastoni perfetti. Il legno, invece, era pieno di buchi, il legno era da estirpare subito e bruciare.

Hai solo bisogno di pettinarti il cuore, chi non ne ha bisogno? Ma sta’ attenta, non voglio vederti soffrire e tu stai male con facilità.

Erano sorrisi aperti che non potevo guardare. Tu che mi dicevi di liberarmi di me per accogliere un altro. Tu conoscevi la consistenza del mio cuore, che non è frutto, né fragola né torsolo di mela, è un cuore ugualmente rosicchiato, mangiato con furia e con distrazione sputato via. Dovrei tornare indietro e raccogliere tutto il succo sparso, farne resina dura, raschiarne il muschio, lisciarne le rughe. Ma sarebbe un cuore ricostruito e finto, che si rompe di nuovo se soffia furiano o tramontana. E gridano sempre i venti, da tutte le direzioni, non c’è rosa o bussola che sappia guidarmi per la giusta rotta. Il mare è spalancato e scuro, è vino, è sangue, è fiotti di parole che si rincorrono e si ritirano, che sbattono contro la fronte (e tu pensi al tramonto sorto dalla riva, acciottolato e nero) e tutto è tempesta, e sempre attorno è tempesta e il segreto è che ho paura dell’acqua, non ho mai imparato a nuotare.

L’hai ripetuto tante volte. Ogni nostra conversazione era un ammonimento. E io ti scrivevo con la paura di sbagliare. Chiudere gli occhi era un gesto semplice. Semplice, come inghiottire saliva, come respirare, come cadere in amore. Stai attenta. Diventavi una madre, una sorella, una coscienza privata che non si ha la forza di ascoltare. Ti ringraziavo ogni volta, ti voglio bene, dicevo, ti voglio bene.

Avevi ragione tu. E no che non è facile adesso scavare nella testa per cercare il germe. Ho provato le medicine che ho trovato, tra pagine e pagine di uomini rotti, scrutando la regola del precedente, scoprendo che chi guarda troppo non vede più niente. Mi sono addormentata chimicamente, fiorendomi in testa sogni indotti e bianchi come camicie di forza. E dopo diciannove notti ho sognato parole per donne di carne, e tra loro non c’ero, con crudele evidenza, era, che non esistevo, più.

Vorrei accarezzarti i capelli con le dita, metterti le ciocche dietro l’orecchio, tenerti la testa sulle gambe e farti addormentare piano, col polpastrello cancellarti le lacrime dalle guance, vederle arrossire sotto una carezza.

Dovresti essere qui. Dovresti vedermi brillare. Dovresti vederle le vene sottili pazienti attente esplodere di rabbia per l’errore eterno e ingenuo. A sedici anni avrei saputo essere più prudente. Questa primavera fuori tempo è venuta a devastare il raccolto. Avrei voluto un orecchio più saggio, per ascoltare meglio il tuo amore.

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